A nove anni ho perso mio padre.
Nonostante soffrisse già da tempo di gravi problemi cardiocircolatori (era stato vittima di un ictus che gli aveva provocato una semiparalisi degli arti), nonostante i medici gli avessero categoricamente vietato di fumare, mio padre non riusciva a separarsi dalle sue sigarette, cui regalava la sua vita con disarmante generosità.
Sua moglie -mia madre- aveva da tempo ingaggiato una lotta spietata contro il suo ostinato ma involontario comportamento autodistruttivo; si serviva delle parole, ora dolci, ora minacciose; gli sequestrava tutte le sigarette (spesso intere stecche) che riusciva ad intercettare.
Ed io, figlia tanto amata, io che adoravo mio padre, cosa facevo per aiutarlo?
In una sorta di caccia al tesoro, mi mettevo sulle tracce delle sigarette sottratte da mia madre, la "perfida", la "senza-cuore", e le scovavo prima che lei riuscisse a distruggerle. Da figlia "amorevole", le riconsegnavo soddisfatta a mio padre, felice di essergli stata utile.
Quel 28 maggio, quando, tornando a casa da scuola, non l'ho più trovato, quei gesti mi sono apparsi in tutta la loro imbecillità, in tutta la loro oscena e imperdonabile colpevolezza.
Da quel giorno, ogni sigaretta fumata da una persona a me cara rinnova il dolore, mi restituisce intatto il senso di colpa.
Nel tempo, però, ho elaborato forme di ribellione, di intervento. Se non si può cambiare ciò che è stato, si può almeno non essere complici, per troppo affetto o per indifferenza. Instancabilmente, io cerco modi e strumenti per impedire a chi mi è caro di regalare la propria vita al fumo: mi servo di parole, ora dolcemente persuasive, ora minacciose; trasmetto informazioni precise e impietose sugli effetti devastanti del fumo; sottraggo le sigarette e le distruggo, prima che qualcuno, per incosciente affetto, possa restituirle al proprietario.
E' illusorio pensare di potere modificare con il proprio comportamento la realtà che ci circonda?
E se anche fosse, cos'è che merita di essere definito "reale" o "realistico"?
Nonostante soffrisse già da tempo di gravi problemi cardiocircolatori (era stato vittima di un ictus che gli aveva provocato una semiparalisi degli arti), nonostante i medici gli avessero categoricamente vietato di fumare, mio padre non riusciva a separarsi dalle sue sigarette, cui regalava la sua vita con disarmante generosità.
Sua moglie -mia madre- aveva da tempo ingaggiato una lotta spietata contro il suo ostinato ma involontario comportamento autodistruttivo; si serviva delle parole, ora dolci, ora minacciose; gli sequestrava tutte le sigarette (spesso intere stecche) che riusciva ad intercettare.
Ed io, figlia tanto amata, io che adoravo mio padre, cosa facevo per aiutarlo?
In una sorta di caccia al tesoro, mi mettevo sulle tracce delle sigarette sottratte da mia madre, la "perfida", la "senza-cuore", e le scovavo prima che lei riuscisse a distruggerle. Da figlia "amorevole", le riconsegnavo soddisfatta a mio padre, felice di essergli stata utile.
Quel 28 maggio, quando, tornando a casa da scuola, non l'ho più trovato, quei gesti mi sono apparsi in tutta la loro imbecillità, in tutta la loro oscena e imperdonabile colpevolezza.
Da quel giorno, ogni sigaretta fumata da una persona a me cara rinnova il dolore, mi restituisce intatto il senso di colpa.
Nel tempo, però, ho elaborato forme di ribellione, di intervento. Se non si può cambiare ciò che è stato, si può almeno non essere complici, per troppo affetto o per indifferenza. Instancabilmente, io cerco modi e strumenti per impedire a chi mi è caro di regalare la propria vita al fumo: mi servo di parole, ora dolcemente persuasive, ora minacciose; trasmetto informazioni precise e impietose sugli effetti devastanti del fumo; sottraggo le sigarette e le distruggo, prima che qualcuno, per incosciente affetto, possa restituirle al proprietario.
E' illusorio pensare di potere modificare con il proprio comportamento la realtà che ci circonda?
E se anche fosse, cos'è che merita di essere definito "reale" o "realistico"?
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